27 gennaio. Giornata della memoria

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano aderendo alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo, dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati.

Il testo della legge così definisce le finalità del Giorno della Memoria:

« La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. »

Pubblichiamo per l’occasione una riflessione a cura del Prof. Esposito Graziano.

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LA GIORNATA DELLA MEMORIA 2011

la violenza inutile

Istituita con una legge dello Stato soltanto undici anni fa, il Giorno della Memoria, a detta anche di autorevoli commentatori, rischia un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi facendo venir meno lo scopo iniziale della Giornata, ossia ricordare per creare una coscienza umana come antidoto per ogni violenza, persecuzione e discriminazione.

Sicuramente Levi è, tra i superstiti di Auschwitz, quello che ha più impegnato la propria esistenza a far conoscere tutto il male della Shoah.

Nel cap. V della sua ultima opera “I sommersi e i salvati”, Levi traccia uno spaccato delle violenze che erano perpetrate nei lager. Violenza inutile. Perché esiste una violenza utile? Purtroppo sì.

La morte, anche non provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è tristemente utile, né è inutile, in generale, l’assassinio.

Messi da parte i casi di follia omicida, chi uccide sa perché lo fa: per denaro, per sopprimere un nemico vero o presunto, per vendicare un’offesa. Le guerre sono detestabili, sono un pessimo modo per risolvere le controversie tra nazioni o tra fazioni, ma non si possono definire inutili.

Ora io credo che i dodici anni hitleriani abbiano condiviso la loro violenza con molti altri spazi-tempi storici, ma che siano stati caratterizzati da una diffusa violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore.

All’inizio della sequenza del ricordo sta il treno che ha segnato la partenza verso l’ignoto: non solo per ragioni cronologiche, ma anche per la crudeltà gratuita con cui erano impiegati a uno scopo inconsueto quegli (altrimenti innocui) convogli di comuni carri merci.

Ora, cinquanta persone in un vagone merci stanno molto a disagio, possono sdraiarsi tutte simultaneamente per riposare, ma solo corpo a corpo. Se sono cento o più, anche un viaggio di poche ore è un inferno, si deve stare in piedi o accovacciati a turno.

La nudità del vagone era totale. Le autorità tedesche non provvedevano letteralmente a nulla: né viveri, né acqua, né stuoie o paglia sul pavimento di legno, né recipienti per i bisogni corporali, e neppure si curavano di avvertire le autorità locali dei campi di raccolta, di provvedere in qualche modo. Un avviso non sarebbe costato nulla: ma appunto, questa sistematica negligenza si risolveva in un’inutile crudeltà, in una deliberata creazione di dolore che era fine a se stessa.

Da Westerbork, in Olanda, partirono novantatré treni con un migliaio di deportati per ogni treno. I superstiti furono circa cinquecento.

Qualche volta il convoglio veniva fermato in qualche stazione e venivano aperte le porte dei vagoni.

Ai prigionieri era concesso di scendere per i bisogni impellenti, ma di rimanere nei pressi dei binari.

Le SS della scorta non nascondevano il loro divertimento nel vedere uomini e donne accovacciarsi dove potevano, e i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto: gente come questa meritava il suo destino, basta vedere come si comportano, non sono essere umani ma bestie, porci; è evidente come la luce del sole.

Ma come affermava Levi, tutto ciò era solo il prologo. Nella vita che doveva seguire, nel ritmo quotidiano del lager, l’offesa al pudore rappresentava, almeno all’inizio, una parte importante della sofferenza globale.

Non era facile né indolore abituarsi all’enorme latrina collettiva, ai tempi stretti e obbligati, alla presenza davanti a te dell’aspirante alla successione.

Tuttavia, entro poche settimane il disagio si attenuava fino a sparire; sopravveniva (non per tutti!) l’assuefazione, il che è un modo caritatevole di affermare che la trasformazione da essere umani in animali era sulla buona strada.

Probabilmente questa trasformazione da esseri umani in animali non è stata mai progettata né formulata chiaramente. Era una conseguenza logica del sistema. Un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in tutte le direzioni, anche e specialmente verso il basso.

Le donne di Birkenau raccontano che, una volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata), se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa quotidiana, per evacuarvi di notte, e per lavarsi quando c’era l’acqua ai lavatoi.

Appena arrivati al campo, l’offesa al pudore continuava con la costrizione alla nudità. Nudità che non riguardava soltanto l’abbigliamento ma anche i capelli e tutti gli altri peli. Un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti, anche quelli più immondi sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un verme che sa di poter essere schiacciato da un momento all’altro.

Esiste un’invenzione che è nata proprio ad Auschwitz: il tatuaggio.

Di per sé l’operazione era poco dolorosa e durava soltanto qualche minuto, ma era traumatica.

Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che s’imprime agli schiavi e al bestiame destinati al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più un nome. Questo è il vostro nuovo nome.

Anche la violenza del tatuaggio era una violenza gratuita, fine a se stessa, pura offesa.

Non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca e al mantello invernale? No, non bastavano, occorreva un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse sulla sua carne la sua condanna.

Primo Levi, a questo punto, si pone la domanda: se gli ebrei dovevano morire perché i nazisti non hanno ucciso le loro vittime dove li trovavano, cosa sicuramente più economica, anziché affannarsi a trascinarli con i loro treni per portarli a morire lontano, dopo un viaggio insensato?

Veramente si è indotti a pensare che la scelta imposta dall’alto fosse quella che comportava la massima afflizione, il massimo spreco di sofferenze fisiche e morali. Il nemico non soltanto doveva morire, ma morire nel tormento.

L’estrema umiliazione avveniva sulle spoglie umane dopo la morte. I trattamenti cui erano sottoposti nei lager volevano esprimere che non si trattava di resti umani, ma di materia bruta, indifferente, buona, nel migliore dei casi per qualche impiego commerciale.

Le ceneri umane provenienti dai forni crematori, tonnellate il giorno, erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso denti o vertebre.

Ma nonostante ciò furono usati per vari scopi: per colmare terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di costruzioni di legno, come fertilizzante fosforico, in modo particolare furono impiegate al posto della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle SS situato accanto al campo.

Qui Levi chiosa, con macabra ironia, che non sa se per pura callosità, o se non invece, perché, per la sua stessa origine, quello era materiale da calpestare. A conclusione del suo drammatico capitolo sulla “violenza inutile”, Levi richiama alcune battute tratte dall’intervista che la scrittrice Gitta Sereny fece a Franz Stangl, ex comandante del lager di Treblinka (intervista tratta dal libro “In quelle tenebre”, Adelphi, Milano, 1975, p.135): “Visto che li avreste uccisi tutti… che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà? ” chiese la scrittrice a Stangl detenuto nelle carceri di Dussendorf. Questa fu la risposta: ”Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendere possibile fare ciò che facevano”. In altre parole, prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della sua colpa. E’ una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo: è l’unica utilità della violenza inutile.[1]

La difficoltà del testimone è accentuata dal fatto che loro sono costretti a raccontare episodi di una crudeltà così enorme e di così grandi proporzioni da sembrare delle esagerazioni inverosimili. Questa difficoltà era stata prevista in anticipo dagli stessi colpevoli.

Come riferisce Primo Levi, molti sopravvissuti ricordano che i militari delle SS si divertivano ad ammonire cinicamente i prigionieri: ”In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà, forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme con voi.

E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi perché siano creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo tutto e non a voi. La storia dei lager, saremo noi a dettarla”.[2]

L’Abruzzo non è stato estraneo alla fabbrica dell’orrore.

Dopo la promulgazione delle Leggi Razziali emanate in Italia tra il 5 Settembre 1938 e il 29 Giugno 1939, che ricalcano essenzialmente quelle promulgate in Germania, anche l’Abruzzo ha dato il suo contributo.

Ecco i campi di concentramento della nostra regione:

CASOLI

Il campo di concentramento di Casoli attivato nel 1940 ed era composto da due edifici: uno di proprietà privata e l’altro era una ex scuola comunale. Qui venivano portati «principalmente ebrei di nazionalità tedesca e austriaca. Le condizioni degli internati di Casoli all’inizio non furono particolarmente dure grazie al Podestà, che, applicò in modo blando le disposizioni previste per l’internamento, e grazie anche all’atteggiamento comprensivo della popolazione locale».

CHIETI

«Il campo di Chieti era stato istituito nell’asilo infantile “Principessa di Piemonte”, ed i bambini, circa duecento, che si trovavano nell’edificio, vennero sistemati nell’Istituto S. Maddalena. Il 14 settembre 1940, erano presenti nel campo 21 internati e, il 15 ottobre dello stesso anno, il campo raggiunse le 29 presenze, gli internati furono sempre in grande maggioranza, inglesi e francesi ISTONIO MARINA (Vasto)

Il campo di Istonio Marina fu uno dei primi campi abruzzesi ad essere allestiti. L’11 giugno 1940 era già attivato. Aveva una capienza complessiva, preventivata all’inizio, di 280 posti, poi diminuita a 170. Nel campo di Istonio vi si internarono, soprattutto, italiani ritenuti “pericolosi”, e solo negli ultimi mesi, precedenti la chiusura, gli slavi. Le condizioni di vita vennero rese difficili dalla mancanza di spazio e degli infissi in alcuni locali, dall’insufficienza dei servizi igienici, dalle difficoltà di approvvigionamento del vitto e dall’atteggiamento arbitrario, nei confronti degli internati, del direttore Vincenzo Prezioso».

LAMA DEI PELIGNI.

Il campo di Lama dei Peligni era composto dalla casa di proprietà della vedova Camilla Borrelli, si trovava all’interno del paese e aveva una capienza di 60 posti. Gli internati consumavano il vitto nelle locande del paese; il che permetteva loro, oltre ad una certa libertà di movimento, la possibilità di avere contatti (benché proibiti), con la popolazione locale, che ebbe sempre un atteggiamento comprensivo nei loro confronti»
LANCIANO.

«Il campo di Lanciano era per sole donne. Rimase un campo prettamente femminile fino al febbraio 1942, quando le internate vennero trasferite altrove e sostituite dagli slavi».
TOLLO

«Il 23 febbraio 1942, arrivarono a Tollo 42 “comunisti pericolosi politicamente”, provenienti dai campi di concentramento dell’Albania. Erano tutti uomini, di cui 39 jugoslavi e tre montenegrini. Il campo offre pochissima garanzia essendo esso sistemato in fabbricato civile già adibito ad abitazione privata al quale nessun ritocco è stato apportato. Tale fabbricato sorge al centro del paese; ha balconi e finestre privi di inferiate di protezione, i quali per essere sovrastanti ad altri, più vicino al suolo, possono favorire la scalata e quindi la fuga».
CITTA’ SANT’ANGELO.

«Il campo di Città S. Angelo rimase vuoto fino al febbraio 1941, nonostante che l’Ispettore Falcone, nei mesi precedenti, avesse più volte comunicato al Ministero che il campo era stato attivato ed era pronto a ricevere gli internati». Il campo veniva così descritto. «Appena entrati appare una porta che dà in una camera buia senza finestre destinata per le punizioni. In un piano terreno sopraelevato sono i dormitori, ampi, con il pavimento a tavolato di legno. Uno dei dormitori trovasi al piano superiore. Finora nessun locale è stato destinato per l’eventuale isolamento o infermeria o ambulatorio, vi è il bagno ma senza scaldabagno che necessita. Le vaccinazioni non sono ancora state eseguite. Solo alla fine del 1942, verrà costruita l’infermeria con una camera da bagno completa di vasca, lavandino e due docce.nell’inverno del 1942, erano presenti nel campo circa 120 internati, quasi tutti jugoslavi, tra i quali “ventisei individui».
CIVITELLA DEL TRONTO

«Il campo era composto da tre edifici: dall’Ospizio “Filippo Alessandrini” ( ex convento dei Cappuccini), di proprietà del comune; dall’abitazione della sig.ra Vinca Migliorati, che si trovava all’estremità del paese in via Porta Venore e dal convento Francescano di S. Maria dei Lumi, di proprietà dei frati Minori». Qui vennero internati tutti ebrei di nazionalità inglese provenienti dalla Libia: divisi in 28 famiglie, composti in prevalenza da vecchi donne e bambini con molti bambini, essi avevano bisogno di movimento e di passeggiate all’aria aperta».
CORROPOLI.

«Il campo di concentramento di Corropoli venne istituito nel monastero dei frati Celestini denominato Badia, a circa un chilometro dal paese in contrada Colli.
Il 3 marzo 1941 il campo di Corropoli contava 18 internati; nel corso dei mesi successivi ci furono nuovi arrivi, e il campo, nell’agosto del 1941, raggiunse le 64 presenze.
ISOLA DEL GRAN SASSO.

Il campo di concentramento di Isola del Gran Sasso era composto da due edifici. Uno di essi si trovava vicino alla Basilica di S. Gabriele, ed era un grande salone, fatto costruire dai Padri Passionisti del Santuario per il ricovero di pellegrini. L’altro edificio (che venne adibito a campo di concentramento) si trovava a due chilometri da Isola, ed era un ex albergo (S. Gabriele), di recente costruzione, di proprietà della famiglia Santilli.
NERETO.

Il campo di concentramento di Nereto era composto da tre edifici. «Due di essi, la casa di Silvio Santoni in viale Vittorio Veneto e il secondo piano della casa di proprietà di Carmine Lupini in vicolo Scarfoglio, vennero istituiti nel giugno 1940, mentre il fabbricato di proprietà del consorzio agrario, detto “palazzo bacologico” in viale Roma, nel settembre successivo. Nella “casa in vicolo Scarfoglio n. 4″, si trovava senza docce e senza infermeria ed era occupata da “16 israeliti, uomini, di varie nazionalità ma in maggioranza tedeschi”. Invece la “casa privata in viale Vittorio Veneto n. 39″, dove vi erano internati “50 ebrei tedeschi e polacchi”, era l’unico, dei tre edifici, in ottimo stato, e l’unico “che abbia un bagno a doccia, costruito appositamente (a spese di un internato
NOTARESCO.

Questo campo di concentramento «fu uno dei primi campi, della provincia di Teramo, ad essere allestito e a ricevere i primi internati. Era composto da due edifici: il fabbricato di proprietà dei Marchesi De Vincenzi – Mazzarosa in via Borgo n. 14, con 90 posti e la casa di Eligio Liberi (eredi Caruso), in via Giardino n. 14, con 41 posti.

Graziano Esposito


[1] LEVI P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 83 ss.

[2] LEVI P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 3, (op. cit.).

 

One Response to 27 gennaio. Giornata della memoria

  1. Antonio Esposito scrive:

    Un dialogo x il prof GRAZIANO con stima.
    Il ricordo della SHOA, e’ di diritto x il mondo intero, Commemorarlo e ricordarlo sempre. X chi ha vissuto i tremendi momenti e sono sopravvissuti,ai giovani di oggi e del domani, da non mai dimenticare.
    ESSO e’STATO lo sterminio degli ebrei di
    ANZIANI, DONNE, GIOVANI e BAMBINI, innocenti, raccolti e destinati alla SOLUZIONE FINALE nei campi di steminio.
    E’ da condannare e meditare sempre, pregare che in futuro non avvengano mai+ tale efferatezza che il popolo tedesco ha inferto a vittime innocenti di EBREI.
    La storia e i fatti avvenuti mensiona 6 milioni di ebrei eliminati, con la soluzione finale. al solo pensiero fa’ accaponare la pelle.
    Pero’ come non si puo’ non mensionare che anche il popolo RUSSO sia stato decimato con la violenza inaudita, pare il doppio di vittime innocenti come gli
    ebrei in GERMANIA .
    Con STALIN, Autoritario, pessimo dittatore ha fatto anch’esso sterminare milioni di Russi. Nessuno al mondo mensiona quanta efferatezza egli ha usato contro il suo popolo.
    Perche’ la storia non e’ equa verso il popolo RUSSO? Da 60 anni si parla, si scrive, si commemora, si piange solo le vittime del Nazismo Tedesco.
    Perche’ del comunismo Staliniano cosi’ efferato, nessuno ne cita e commemora del popolo Russo nella storia, oggi? Sono di serie B le vittime dello Stalinismo che con i lagher, gli assideramenti,le fucilazioni di massa le fosse comune e tante altre mostrusita’ che egli ordinava nessun abbia mai pensato di dare loro un giorno nella commemorazione, non ne parlano affatto . Non dedicano il giorno come la SHOA.
    Il 27 gennaio giorno della commemorazione x gli ebrei . X le vittime dello Stalinimo N. N.
    Caro Prof GRAZIANO e’ solo una costatazione storica che tengo a mettere in risalto . Basta ricordare anche la Bomba Atomica !! Cosa che in pochi minuti ha fatto, centinaia di migliaia di vittime . Pagando ancora oggi le conseguense, i sopravvissuti dell’atomica, che hanno subito allora. Con affetto e complimenti al tuo commento sulla SHOA ben redatto ed ben esposto in tutta la sua storia cronologica.
    Un forte abraccio da me.
    TONY da TORINO…




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